Invecchiare bene a casa propria, una ricerca e le proposte di “Abitare e anziani”

Gli anziani vogliono invecchiare a casa propria. È un dato di fatto da cui partire per adeguare i modelli abitativi ai nuovi bisogni e ripensare le abitazioni “libere” da barriere di ogni tipo.

Un obiettivo che non può prescindere dall’applicazione di strumenti e criteri moderni di accessibilità, da un sistema di assistenza sociosanitaria e di tecnoassistenza intelligente. Il tema è stato al centro del seminario nazionale su “Nuovi modelli abitativi e welfare di prossimità”, promosso dall’Associazione Abitare e Anziani.

“Da poco abbiamo concluso la ricerca sul diritto di invecchiare a casa propria: problemi e prospettive della domiciliarità – spiega Claudio Falasca, direttore di Abitare e Anziani. Dalla ricerca emerge che la stragrande maggioranza delle persone anziane chiede di poter invecchiare nelle proprie case. Nel nostro Paese questa scelta ha un valore del tutto particolare, tenuto conto che in larga percentuale, l’80,3%, gli anziani italiani sono proprietari delle case in cui vivono”.

I limiti di case e città

“La possibilità di assecondare questa scelta – prosegue Falasca – senza che sia penalizzante, dipende in larga misura dalla qualità della loro abitazione e dalla qualità del welfare di prossimità, ovvero il quartiere in cui l’anziano vive”.

La ricerca, che ha fatto da “elemento-guida” dei lavori del seminario, segnala un aumento negli anni di anziani con limitazioni funzionali: dai 2 milioni e mezzo del 2013, si arriverà a circa 3 milioni nel 2025. A fronte di queste previsioni, di contro non si riscontrano passi in avanti nell’adeguamento del tessuto abitativo. Per esempio, la ricerca mette in evidenza che sono ancora troppe le abitazioni senza ascensore: il 55,7% delle abitazioni oltre i due piani, in cui vivono persone anziane.

La condizione urbana, inoltre, è sempre più critica, con una crescita veloce e disordinata dell’inurbamento: nel 2050 è previsto che la popolazione urbana sarà del 78%. Ancora, dal 1971 al 2015, in quasi 2.000 piccoli comuni, la popolazione è diminuita di oltre il 20%, arrivando a veri casi di spopolamento in cui le persone anziane sono spesso le uniche a restare, ma prive di un’adeguata rete di assistenza sociale. Si svuotano anche i centri delle città e si allargano le periferie, con un impatto negativo sulle strutture del welfare, soprattutto per quel che riguarda la frantumazione dei rapporti sociali, il degrado ambientale, l’impoverimento dei servizi sul territorio.

“Insomma, abbiamo un numero sempre crescente di anziani con limitazioni funzionali – prosegue Falasca – la maggior parte dei quali abita in case di proprietà, molto grandi ma non adeguate ai loro bisogni. L’assistenza domiciliare grava soprattutto sulle famiglie, mentre il sistema dei servizi socio-sanitari è inadeguato per consistenza e presenza sul territorio”.

“In sintesi – chiosa Falasca – le città sono diventate nemiche degli anziani”.  Se questo è il quadro, a dire il vero poco rassicurante, quali sono le possibili soluzioni?

“La sfida è prima di tutto culturale – afferma ancora Falasca –. Ripensare i modelli abitativi; costruire un rapporto di coerenza tra dimensione urbanistica e dimensione sociosanitaria; abbattere le barriere; rendere smart il sistema dei servizi socioassistenziali, significa mettere le mani su materie particolarmente ‘sensibili’ sia culturalmente ‘il senso della casa’, sia politicamente ‘gli interessi sottesi all’organizzazione urbana’. Evidentemente non è una trasformazione che può essere realizzata in tempi brevi, richiede invece un lungo lavoro nel corpo della società costruito sulla base di processi partecipativi sostenuti da un chiaro progetto culturale e politico”.

Città e case compatibili con la vita intera

Occorre lungimiranza nelle politiche abitative del futuro, progettando città e case compatibili con le esigenze dell’intera vita delle persone, e non solo della fase della terza età. Produrre una nuova offerta abitativa che dia risposte ai più diversi bisogni, condizioni e vulnerabilità che possono intervenire nella vita di tutti ed in qualsiasi momento.

Modelli a cui guardare esistono già, come dice ancora il Direttore di Abitare e Anziani.  “Negli Stati Uniti, in Canada e nel Nord Europa esistono modelli d’intervento diversi: abitazioni singole o raggruppate, dotate di alcuni servizi di base (in genere una portineria-reception o operatori con funzioni di primo contatto, servizi di allarme o telesoccorso, ausili per la mobilità, tra cui miniascensori o montascale, monitoraggio e servizi di rassicurazione) e altri servizi fornibili a richiesta (ristorante o preparazione dei pasti, spesa, ritiro della posta, pulizie domestiche, assistenza alla persona). Soluzioni che prevedono quasi sempre anche spazi comuni, iniziative di aggregazione e socializzazione, centri benessere e servizi di prevenzione o sostegno alle esigenze sanitarie di base”. Senza dimenticare le esperienze pioneristiche realizzate in Italia, come il villaggio “Il Paese ritrovato” e il “Villaggio A”, rispettivamente a Monza e a Varese, destinati ad accogliere persone anziane con demenza.

“L’obiettivo – conclude Falasca – è quello di garantire alla popolazione anziana, ma non solo, di abitare in autonomia in una cornice di tutela e assistenza leggera”.